martedì 25 maggio 2010

Orazio CANCILA, Castelbuono Medievale e i Ventimiglia

Orazio CANCILA, Castelbuono Medievale e i Ventimiglia                                                            

sabato 22 maggio 2010

IDEOLOGIA E PROPAGANDA NEL REGNO NORMANNO DI SICILIA

IDEOLOGIA E PROPAGANDA NEL REGNO NORMANNO DI SICILIA                                                            

martedì 11 maggio 2010

MdV 09

B.GEREMEK, L'emarginato, in L'uomo medievale, a cura di J.Le Goff, Roma-Bari 1987, pp. 410-421.

[IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdV 08

A.GROHMANN, La città medievale, Bari 2003, pp. 161-163.

[IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdV 07

M.BAIGENT-R.LEIGH, L'Inquisizione. Persecuzioni, ideologia e potere, Milano 2000, pp. 93-99.

[IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdV 06

A.BRANCATI, Pregiudizi vecchi e nuovi sulle attività lavorative, in Popoli e Civiltà, 1, Firenze 1989, pp. 428; 442-443.

[IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdV 05

G.PICCINNI, I mille anni del Medioevo, Milano 1999, pp. 245-248 e 286-288.

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MdV 04

P.STEFANI, Gli Ebrei, Bologna 1997, pp. 87-99.

[IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdV 03

G.DAHAN, La disputa antigiudaica nel Medioevo cristiano, Genova 1993, pp. 7-11.

[IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdV 02

-voce: Ebrei nel Medioevo, in Dizionario Enciclopedico del Medioevo, vol. I, Parigi-Roma-Cambridge 1998, pp. 614-618.
[IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdV 01


Il Mercante di Venezia (2005)



Regia Michael Radford
Sceneggiatura Michael Radford

Costumi Sammy Sheldon
Effetti Tiberio Angeloni Daman, Franco Galiano Shore, The senate visual effects limited Daman
Fotografia Benoit Delhomme Rolla
Montaggio Luca Zucchetti Grauer
Musiche Jocelyn Pook Shore
Scenografia Bruno rubeo

prima: Venerdì 11 Febbraio 2005
genere: Commedia/Drammatico/Storico



Cast:
Shylock Al Pacino
Portia Lynn Collins
Antonio Jeremy Irons
Lorenzo Charlie Cox
Bassanio Joseph Fiennes
Gratiano Kris Marshall
Jessica Zuleikha Robinson
Tubal Allan Corduner
Solanio Gregor Fisher
Leonardo Tony Schiena
Salerio John Sessions
Frate Julian Nest
altri personaggi Radica Jovicic



Trama

Antonio, ricco mercante veneziano, ma con i capitali investiti in navi da carico ancora in viaggio, chiede all'ebreo Shylock un prestito di tremila ducati da dare al nobile Bassanio, affinché quest'ultimo possa corteggiare la ricca Porzia. L'usuraio però, da sempre maltrattato dal mercante, riesce a fargli sottoscrivere una bizzarra clausola: entro tre mesi, qualora la somma non venisse restituita, avrà in cambio una libbra di carne dal corpo del mercante, da tagliarsi vicino al cuore. Alla scadenza, Antonio non può pagare il debito e Shylock pretende il suo pegno. Le parti si riuniscono quindi davanti al Doge, ma proprio quando il destino di Antonio sembra segnato, l'intera vicenda si ritorce contro lo stesso usuraio.

Note


- GIRATO A VENEZIA E A ESCH-SUR-ALZETTE IN LUSSEMBURGO

- PRESENTATO FUORI CONCORSO ALLA 61a MOSTRA INTERNAZIONALE DEL CINEMA DI VENEZIA (2004)

- CATE BLANCHETT ERA STATA SCELTA PER LA PARTE DI 'PORTIA', MA HA DOVUTO RINUNCIARE QUANDO HA SCOPERTO DI ESSERE INCINTA.

- CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO 2005 COME MIGLIOR FILM DELL'UNIONE EUROPEA.

- NASTRO D'ARGENTO 2006 PER LA MIGLIORE SCENOGRAFIA
La Critica - Rassegna Stampa

"Non c'è pace per William Shakespeare. Abbiamo appena finito di vederlo strattonato, modernizzato, infilato a forza in epoche e contenitori non suoi, che arriva chi vuole riportarlo alla lettera, all'epoca, al contesto. Come se ogni dramma in costume non parlasse anzitutto del presente e Amleto o Macbeth non fossero nostri contemporanei. Ma tant'è. L'ultimo paladino del filologicamente corretto è il Michael Radford del 'Mercante di Venezia', che immerge la già fosca vicenda di Shylock in una luce costantemente tetra, appena rischiarata da qualche intermezzo brillante. Aggiungendo un prologo nel ghetto senz'altro utile dal punto di vista storico ma abbastanza incongruo sotto il profilo drammaturgico (...) Si capisce che il rispetto dell'epoca e la scelta di girare davvero a Venezia (le scene, molto belle sono di Bruno Rubeo, la foto fin troppo caliginosa di Benoit Delhomme) facciano da scudo contro le ambiguità del testo. Ma i pregi di questo 'Mercante di Venezia', dramma così controverso da essere fra i meno rappresentati, specie dal secondo dopoguerra in poi, finiscono per essere di ordine sostanzialmente didattico. Tanto più che la regia volutamente antimoderna di Radford, apertamente al servizio del testo e degli attori, si impenna quando in scena c'è Shylock-Al Pacino, voce di gola e sguardi lenti, zavorrati dal rancore; ma sonnecchia se c'è da tener dietro al malinconico orgoglio e poi alle angosce di Antonio (un pallido Jeremy Irons), il cristiano da cui Shylock esige una libbra di carne in cambio di un credito inevaso (che peccato non aver avuto il grande Ian McKellen nel ruolo); o, peggio, alle manovre di Joseph Fiennes, attore tanto seducente quanto di scarso peso sullo schermo. E meno male che la lunga tirata di Shylock deciso a incassare il suo credito inumano, rifulge in tutta la sua ferocia come uno specchio rivolto ai veneziani e alle loro leggi." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 5 settembre 2004)
"Nel portare sullo schermo 'Il mercante di Venezia' l'inglese Michael Radford ha fatto uno spettacolo che fra abiti finti e veri canali e monumenti, ricorda i drammi in costume della Scalera anni '30. Ma il testo è intelligentemente contestualizzato, partendo dalla sia pur blanda persecuzione degli ebrei verso la fine del 1500, ben tagliato e recitato rispettando il miracoloso equilibrio fra realismo e favola. Astioso, raggomitolato e dolente al punto da ricordare ogni tanto i toni lamentosi delle dizioni poetiche di Umberto Saba, Pacino è uno Shylock umiliato e offeso che vale da solo una reverente visita al film." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 5 settembre 2004)
"Triste, vendicativo e solo, ecco il mercante ebreo di Al Pacino nel fastoso, classico ed educato film ripreso nei luoghi in cui Shakespeare l'ha pensato. Dando il massimo spazio alla parola, sicuro che la convivenza tra religioni e culture diverse sia tema attualissimo, Radford col suo spettacolone di teatro filmato manda nella bottiglia un messaggio: siamo e siete tutti disperati per soldi e per razza. Fedelissimo al testo, anche nel finale degli anelli spesso tagliato, il film evoca e rievoca polvere di palcoscenico e sta in delicato equilibrio sull'antisemitismo del copione. Pacino, ennesimo Shylock del cinema, è bravo, misurato e torvo, specie l'arringa, ma sir William tiene molto anche all'Antonio di Jeremy Irons, pronto a tutto per l'amico Bassanio-Fiennes." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 19 febbraio 2005)
Copyright © Cinematografo 2006.

MdA 06

Michael MALLET, Il Condottiero, in L'uomo del Rinascimento, a cura di E.Garin, Laterza, Bari 1988, pp. 45-72.   [IL TESTO DA FOTOCOPIARE E' A DISPOSIZIONE DEGLI STUDENTI PRESSO L'ISTITUTO DI STORIA MEDIEVALE, STANZA 323, MARTEDI' DALLE 11 ALLE 13]

MdA 05


Il Mestiere Delle Armi (2001)

 

 

Pietro Aretino: il pornografo flagellatore di Principi e Pontefici

                                                                                                                                             (di Fabrizio Legger)

 












Pietro Aretino (Tiziano)

   Nonostante il passare dei secoli e i cambiamenti di gusto, stile e mode letterarie, l’interesse per Pietro Aretino, il più spregiudicato e il più scandalistico scrittore italiano del primo Cinquecento, resta invariato, il che testimonia, a oltre cinque secoli di distanza dalla sua scomparsa, l’eterna validità di questo originale scrittore.
   Pietro Del Tura, più comunemente noto come Pietro Aretino, perché così fu solito firmarsi, nacque nel 1492 ad Arezzo, figlio di un soldato e di una popolana di non umile famiglia. Il padre abbandonò la moglie e i figli quando Pietro era ancora bambino, e la madre divenne amante di un gentiluomo aretino, un certo Bacci, che si prese a cuore il di lei vivace figliuolo, lo fece studiare e vista la sua spiccata inclinazione per l’arte e per la poesia, lo inviò a Perugia, nella bottega di un pittore, affinché apprendesse i rudimenti di tale arte. Ma a Perugia, Pietro scoprì la sua vocazione poetica. Frequentò il giovane Agnolo Firenzuola e scrisse sonetti, capitoli e canzoni di intonazione petrarchesca, che pubblicò, nel 1512, in un volume intitolato Opera Nova, stampato a Venezia dall’editore Zoppino.
   Poi, dopo un breve soggiorno a Siena, ricco di studi pittorici e letterari, ma anche di bagordi e di avventure erotiche con ricche adultere e volgari donne di malaffare, ben deciso a tentare la carriera letteraria, nel 1517 si trasferì a Roma.
   L’Aretino era un uomo smodato e libidinoso, amante della buona tavola e delle belle donne: insomma, un ghiottone, un crapulone, un frequentatore di taverne e lupanari. Aveva la battuta sempre pronta, la risata gagliarda, e il suo tono era in perenne equilibrio tra il canzonatorio e l’adulatorio. Amava far bisboccia sino a tarda notte, spesso si ubriacava, e non passava sera senza che andasse, da solo o in compagnia di allegri puttanieri, in qualche bordello a “cavalcar bagasce”, come confessò egli stesso con grande schiettezza e con compiaciuto gusto dell’osceno.
   Roma, nel primo Cinquecento, era una città viziosa e godereccia, dove gli artisti potevano condurre esistenze scapestrate e irregolari, senza timore di incorrere in austere punizioni (come poi invece avvenne verso la fine del secolo, con l’imporsi soffocante della Controriforma). Infatti, anche i papi, i cardinali e gli altri prelati, a quell’epoca, non disdegnavano di sollazzarsi carnalmente con meretrici e prostituti, tanto che, nelle pasquinate (le celebri satire poetiche dell’epoca) il Vaticano era definito come uno “squallido bordello” e un “covo di baldracche, puttanieri e sodomiti vestiti di porpora”.
   In quell’ambiente a lui così congeniale, l’Aretino si mise subito in mostra e si fece notare immediatamente: cercò di ingraziarsi potenti cardinali e prestigiosi uomini d’affari, scrivendo per loro poesie encomiastiche in cui ne tesseva pomposamente gli elogi, ma, al tempo stesso, si dette da fare per conoscere nel più breve tempo possibile, tutte le più avvenenti meretrici e tutte le più rinomate taverne dell’Urbe, in modo da tenere saldamente i piedi  in entrambi gli ambienti: quelli “alti” del potere e della ricchezza, e quelli “bassi” dei piaceri volgari e dei bagordi da strapazzo.
   E da tutti e due questi ambienti trasse ispirazione feconda per le proprie dissacranti e pungenti opere letterarie (come si può ampiamente riscontrare dalle Pasquinate, dai Sonetti Lussuriosi, dalle Commedie, dalle Sei Giornate).
   Il suo carattere spiritoso, ilare, sboccato, sarcastico, libidinoso, ridanciano, lo fece presto benvolere dal ricco finanziere Agostino Chigi, il quale gli fece da mecenate e lo assunse al suo servizio.
   Così, sotto la protezione di un tale mecenate, Pietro Aretino iniziò a frequentare gli ambienti nobiliari e quelli ecclesiastici, divenendo di casa sia alla corte pontificia, sia nelle nobili dimore dei cardinali altolocati e degli aristocratici con cui il Chigi intratteneva ottimi rapporti di affari. E in tutti questi ambienti, lo scurrile poeta toscano riuscì a trovare amicizie, protezioni e ricchi compagni di bagordi, di orge e di lascivi piaceri carnali.
   Ma la sua fama si legò ben presto anche al timore che suscitava la sua maldicenza, la sua lingua pungente e la sua capacità innata di ironizzare sarcasticamente (ora in versi, ora in prosa) su qualunque fatto di cronaca mondana, pettegolezzo o diceria, tanto che, molti nobili, preferivano pagarlo lautamente affinché “tacesse” piuttosto che non pagarlo e rischiare così che scrivesse cose ad essi poco gradite.
   Il periodo romano fu letterariamente assai fecondo per il poeta toscano, anche perché, frequentando le case dei ricchi aristocratici e dei nobili prelati, ebbe modo di usufruire delle loro ben fornite biblioteche, incrementando la sua cultura e trasformandosi in un letterato assai apprezzato per il suo sapere in fatto di poesia cavalleresca, teatro comico e tragico e letteratura agiografica.
   Ma il meglio della sua ispirazione poetica, l’Aretino la ottenne dalla lunga frequentazione dei trivi e dei postriboli, dove conobbe a fondo, in tutte le sue infinite e complesse sfaccettature, l’umanità sanguigna e sensuale delle meretrici, degli ubriaconi, dei puttanieri e degli avventurieri di ogni risma che immortalò poi in poesie divenute celebri, come i famigerati Sonetti Lussuriosi, in cui si possono leggere versi sconci come questi:

Perch’io prov’or un sì solenne cazzo,
che mi rovescia l’orlo della potta,
io vorrei esser tutta quanta potta,
ma vorrei che tu fossi tutto cazzo.
Perché s’io fossi potta e tu cazzo,
isfameria per un tratto la potta,
e tu averesti anche dalla potta
tutto il piacer che può aver un cazzo.
Ma non potendo esser tutta potta,
né tu diventar tutto di cazzo,
piglia il buon voler da questa potta.

   E la sua frequentazione dei bordelli e dei lupanari fu così intensa e così profonda, tanto che divenne un vero e riconosciuto esperto nell’arte del meretricio (esperienza che trasferirà poi nei suoi celebri dialoghi puttaneschi, le già citate Sei Giornate).
   A Roma, Aretino scrisse un’opera in versi, purtroppo andata perduta, di cui si conosce solo il titolo: Il Regno de la Morte, oltre, ovviamente, alle centinaia di pasquinate anonime per cui divenne celebre.
   Queste poesie satiriche estremamente feroci, piene di ingiurie e di termini triviali, venivano appese, anonime, alla statua mutilata di Pasquino, un residuo scultoreo di epoca ellenistica oggi collocato di fianco a Piazza Navona, al cui torso i poeti satirici appendevano i loro componimenti in versi, decisamente critici e denigratori nei confronti dei Papi e dei principali notabili della Corte pontificia.
   L’attività di Aretino come pasquinaro iniziò probabilmente nel 1521, alla morte di Leone X, pontefice che aveva protetto il poeta, ospitandolo a corte. Aretino, alla corte del Papa, si era fatto molti nemici, e con la morte di Leone, temeva fosse eletto papa qualche cardinale a lui avverso, che non gli avrebbe riconfermato gli stessi privilegi di cui godeva sotto il papa mediceo.
   Così, iniziò a scrivere violente pasquinate, piene di sarcasmo e insulti, contro i porporati che, all’interno del Conclave, gli erano più ostili. L’elezione di Papa Adriano VI, il 9 gennaio 1522, un cardinale fiammingo che egli detestava, lo indusse a continuare i suoi attacchi poetici contro la Curia e il nuovo pontefice, facendo così aumentare il numero dei suoi avversari, ma quando intuì che per lui le cose si mettevano male, preferì non rischiare e abbandonare Roma.
   Dal 1522 al 1525 l’esistenza di Pietro Aretino fu più che mai turbolenta e pericolosa, in quanto la sua attività di poeta satirico, pur rendendolo famoso tra il popolo romano, gli alienò molte simpatie alla corte pontificia.
   Lasciata l’Urbe nel luglio del 1522, temendo che il nuovo Papa (che non lo vedeva affatto di buon occhio) potesse farlo arrestare per le sue opere triviali e irriverenti, si recò dapprima a Bologna (dove si fece mantenere per qualche tempo da una ricca donna avida di sesso e affascinata dalle sue poesie lussuriose), poi ad Arezzo (dove cercò di recuperare un po’ di denaro dai suoi parenti) e quindi a Firenze (dove fu ospite dei Medici, illustre famiglia di cui era grande amico).
L’anno successivo andò a Mantova, dove fu ospite dei Gonzaga, poi, nell’estate, si recò a Reggio Emilia, presso Giovanni dalle Bande Nere, grande capitano di ventura e suo intimo amico.
   Presso Giovanni, che apparteneva alla grande famiglia fiorentina dei Medici, l’Aretino restò parecchi mesi, consigliandolo su questioni militari e politiche e accompagnandolo nelle sue bisbocce di taverna e di postribolo.
   Nel novembre del 1523, in seguito all’improvvisa morte di Papa Adriano, tornò a Roma, sperando nell’elezione di un pontefice amico. Fu eletto Giulio de’ Medici, con il nome di Clemente VII, e l’Aretino esultò non poco per questa nomina, visti i suoi ottimi rapporti con la illustre famiglia toscana.
   Ma neppure l’ascesa al soglio pontificio di Clemente VII fu sufficiente a migliorare la sua posizione. Nella corte papale c’erano troppe persone che gli erano ostili: alti prelati che si erano sentiti offesi dalle sue pasquinate, capi di ordini religiosi che erano stati denigrati dai versi e dalle prose dello scrittore, dotti teologi che mal sopportavano la sua libertà di pensiero e l’irriverenza con cui trattava le turbolente vicende del Papato.
   Ce n’era quanto bastava per rendergli la vita veramente difficile: i tempi erano cambiati, i suoi nemici si erano coalizzati, e neppure la presenza di un Papa Medici poteva bastare per rendere sicura l’esistenza dell’Aretino.
   Nel frattempo il poeta, pur viaggiando in continuazione, aveva scritto diverse opere importanti, come i Sonetti Lussuriosi e i Dubbi Amorosi (poesie pornografiche in cui cardinali, monaci e monache vengono descritti come puttanieri, sodomiti e meretrici, intenti a praticare tutte le possibili posizioni degli accoppiamenti sessuali, sbizzarrendosi in amori postribolari, lesbici e sodomitici), la celebre commedia La Cortigiana e tutte le sue più mordaci e velenose Pasquinate.
   I rapporti con i cortigiani papali, però, continuavano a rimanere tesi, in particolare con Gian Matteo Giberti, datario pontificio, con il quale ebbe dapprima aspre tenzoni verbali e piene di ingiurie, poi, addirittura, giungenti allo scontro fisico, con tanto di schiaffi, pugni, calci e sputi in faccia.
   Motivo del contendere? Da un lato, l’avversione profonda (e reciproca) che l’Aretino e il Giberti provavano l’uno nei confronti dell’altro, dall’altro, l’arresto del giovane incisore Marcantonio Raimondi (su ordine dello stesso Giberti) per riprodotto sedici disegni erotici del pittore Giulio Romano, ispirati ai Sonetti Lussuriosi dell’Aretino.
Quest’ultimo prese l’arresto del Raimondi come un vero e proprio affronto alla sua persona, e tanto fece, tantò urlò e tanto batté i pugni, finché il Papa si decise ad ordinare la scarcerazione dell’incisore.
Dopo che il suo amico venne liberato, l’Aretino pubblicò i sonetti, nei cui protagonisti maschili (impegnati in orge di sesso sfrenato con monache, puttane, prelati sodomiti e fraticelli novizi) molti lettori dell’epoca riconobbero il Giberti.
   Scoppiò un grande scandalo, il Papa prese le difese del datario (che si ritenne non solo offeso, ma anche esposto a pubblico ludibrio) e il poeta, per non finire in galera, dovette nuovamente lasciare Roma, rifugiandosi prima ad Arezzo presso i suoi parenti, poi a Fano (dove era accampato Giovanni dalle Bande Nere): e lì, nella piccola città marchigiana, ebbe modo di incontrare e conoscere il re di Francia Francesco I, il quale trovò l’Aretino assai simpatico e lo prese a ben volere, promettendogli appoggio e protezione.
   Grazie all’intervento di alcuni cardinali che gli erano amici, l’Aretino riuscì ad ottenere una perorazione della sua causa presso il Papa. Questi lo perdonò e lo invitò a riappacificarsi con il Giberti.
   Così, nel novembre del 1524, l’Aretino tornò a Roma. Quella con il Giberti fu una riappacificazione solo formale, in quanto i due si detestavano a vicenda, ma dovettero far finta di perdonarsi reciprocamente perché così voleva il pontefice. Poi, il Papa insignì l’Aretino con la croce di Cavaliere di Rodi, ma la corte seguitò a rimanergli ostile.
   Giberti aveva molti amici influenti, assai corrotti e pronti a sostenerlo, perciò l’Aretino si trovò sempre più frequentemente attaccato dai partigiani del datario, i quali gli giurarono che gliela avrebbero fatta pagare.
   Il poeta, dal canto suo, non rimase certo in silenzio. Sentendo tanta ostilità e tanta avversione intorno a sé, riprese a scrivere feroci pasquinate, attaccando gli alti prelati amici del Giberti e satireggiando la corrotta corte pontificia.
   La sua musa sarcastica andò sul pesante, tanto che furono in molti coloro che si sentirono profondamente offesi. Infine, nel luglio del 1525, in seguito a tali feroci pasquinate nelle quali fu ampiamente riconosciuto lo stile aretinesco, il poeta (che era da poco tornato da un viaggio a Mantova) fu aggredito da un sicario prezzolato, un certo Achille Della Volta, inviatogli contro dal solito rancoroso Giberti: lo scrittore reagì all’aggressione e si difese piuttosto bene, sebbene rimanesse ferito al costato e sfigurato in viso, tanto che riuscì a mettere in fuga il pur violento e sanguigno assalitore.
   Invano il poeta si appellò al nuovo Papa per ottenere giustizia: non ottenne risposta, ragion per cui, qualche giorno più tardi, dopo aver profferito roventi ingiurie di ogni genere contro l’odiatissimo Giberti, lasciò per sempre Roma, profetizzando per la città un lugubre futuro di sventura e di morte (e in questo fu davvero profeta, in quanto, nel 1527, i lanzichenecchi germanici calarono sull’Urbe e la saccheggiarono orribilmente) e dirigendosi nuovamente alla volta di Mantova, dove si mise al seguito del suo amico Giovanni dalle Bande Nere, che combatteva per gli Imperiali al servizio della signoria mantovana. Poi, nel 1526, alla morte di Giovanni, perito in seguito ad una ferita in combattimento, si mise al servizio dei Gonzaga, per i quali iniziò a scrivere il poema Marfisa. A Mantova compose anche la celebre e divertente commedia dal titolo Il Marescalco.
   Forse, nella città dei Gonzaga, Aretino avrebbe potuto trovare una buona sistemazione, ma la sua irrefrenabile lussuria lo portò prima a sedurre e ad abusare di alcune damigelle di corte, poi, ad adescare dei giovinetti, con i quali si abbandonò ad atti inverecondi di libidine sodomitica. A questo punto, il Marchese Federigo gli fece intendere che alla corte di Mantova non c’era posto per letterati-avventurieri come lui, e così Aretino fu nuovamente costretto a fare fagotto.
   Nell’aprile del 1527 raggiunse Venezia, dove era stato preceduto dalla fama delle sue opere letterarie e delle sue pasquinate. Nella Repubblica Serenissima, trovò molti protettori, oltre che il porto franco della nascente industria editoriale, e ciò lo indusse a fermarsi nella città lagunare, anche perché vista la fama di poeta che ormai lo circondava, aveva la ferma intenzione di fare stampare dai celebri editori veneziani tutte le sue numerose opere in verso e in prosa.
   A Venezia, il poeta toscano strinse rapporti di amicizia con il Doge Andrea Gritti e con il pittore Tiziano Vecellio, e si trovò a proprio agio in quell’ambiente letterario così vivace e frizzante, caratterizzato da una fervida attività tipografica.
   Il poeta si invaghì a tal punto di Venezia e delle sue bellezze, tanto che non la lasciò più. Acquistò una casa sul Canal Grande e si dedicò alacremente all’attività letteraria, scrivendo poemi come L’Orlandino, dialoghi puttaneschi come quelli delle Sei Giornate, e quelli accademici de Le carte parlanti e del celebre Dialogo delle Corti, la tragedia Orazia, commedie quali La Talanta, Il Filosofo, L’Ipocrito, centinaia di Lettere, nonché molte opere di carattere religioso quali Il Genesi, La Passione di Gesù, I Tre Libri dell’Umanità di Cristo, La Vita di Maria Vergine.
   Come ho accennato, Venezia, a quell’epoca, era la capitale italiana della stamperia: vi si trovavano i migliori tipografi e i migliori editori, come il celebre Aldo Manuzio, e fu proprio nella città lagunare che l’Aretino fece stampare la maggior parte delle sue opere, seguendo tutte le procedure di stampa con meticolosità e pungolo maniacale, in particolare l’epistolario, le opere religiose, le commedie e i  dialoghi, con le quali costruì la sua notevole fortuna letteraria.
   Ma anche nella quiete godereccia di Venezia, l’Aretino non smise di scrivere sonetti mordaci e poesie satiriche contro i vari potenti dell’epoca, tanto che, pur di far tacere la sua penna velenosissima, capace di scaricare infamia e vituperio su chiunque prendesse di mira, re e imperatori, aristocratici e alti prelati si “comprarono” la benevolenza di Pietro Aretino inviandogli doni preziosi, regali sontuosi e ingenti somme di denaro (l’imperatore Carlo V gli passò pure una sorta di pensione mensile, quale ricompensa per i suoi alti meriti letterari e per la sua politica filo-imperiale). Queste, sommate ai proventi che gli giungevano dalle vendite dei suoi libri (in particolare le opere religiose) consentirono al poeta di condurre un’esistenza agiata e spensierata.
   Uomo lussurioso, prodigo, amante dei piaceri carnali, dei bei vestiti, degli agi e della buona tavola, della crapula e delle orge, Pietro Aretino trasformò la sua casa veneziana in una sorta di sfarzoso postribolo e di corte delle oscenità, dove si alternavano in soggiorni più o meno lunghi, avvincenti meretrici, cortigiane fallite, saltimbanchi e giocolieri, ubriaconi e lestofanti, attori affamati, poeti in cerca di fortuna, mercanti, puttanieri, uomini d’arme e avventurieri di ogni risma.
   E in mezzo a tutta questa allegra compagnia di baccanti, di puttane da trivio, di biscazzieri e di artisti bizzarri (tra cui il celebre poeta campano Niccolò Franco), di prostitute d’alto rango e di intrallazzatori, Aretino visse gagliardamente, immerso nei piaceri più sfrenati (sesso a tutto spiano, colossali abbuffate di cibo e feste pressoché continue) e in una attività letteraria che non conobbe soste, sino al 1556, anno in cui morì.
   Ma anche la sua morte fu una sorta di beffa del destino: la leggenda aretinesca racconta, infatti, che Aretino morì per il troppo ridere, dopo aver visto una scimmia che, portata nel suo palazzo da un mercante giunto dall’Oriente, si era infilata nei suoi stivali e camminava goffamente incespicando, schiamazzando e cadendo in continuazione. A furia del troppo ridere, mentre si trovava circondato dalle sue prostitute e dai suoi buffoni, gli si strappò una vena nel petto e il gagliardo poeta delle pasquinate se ne andò all’altro mondo sghignazzando e spasimando, a causa di una inarrestabile emorragia interna. Questo l’aneddoto: sembra invece che il poeta pasquinaro sia morto a causa di un colpo apoplettico.
   Pietro Aretino, con il suo gusto della maldicenza e dello scandalo, riuscì a intimorire i potenti dell’epoca e a farsi mantenere da essi, ma, al tempo stesso, a livello intellettuale, condusse un’aspra battaglia contro il classicismo pedantesco, il petrarchismo, l’aristotelismo, il bembismo, rivelandosi uno scrittore acuto, mordace, brillante ed originale, che fece delle tematiche sessuali volte in satira uno dei suoi argomenti prediletti. Oggi, delle sue opere, sono facilmente leggibili le Lettere (edite da Rizzoli) e le Commedie (edite da Mursia), nonché i dialoghi delle Sei Giornate e i Sonetti Lussuriosi, pubblicati in numerose edizioni, anche tascabili.
   Dunque, ad oltre cinquecento  anni dalla nascita, Pietro Aretino fa ancora parlare di sé, continua a suscitare interesse e curiosità, le sue opere migliori continuano a vendersi, e anche il cinema si è più volte interessato della sua figura. Prodigi, questi, di uno scrittore veramente immortale!

MdA 04


Il Mestiere Delle Armi (2001)

DATI BIOGRAFICI

 Pietro Aretino (Arezzo 1492 - Venezia 1556) se ne va da Roma nell'estate del 1522, prima che vi giunga papa Adriano VI, da lui vituperato nelle sue pasquinate. Soggiorna per qualche tempo a Firenze presso il suo protettore, il cardinale Giulio de' Medici; poi, a partire dal febbraio 1523, a Mantova, presso il marchese Federico Gonzaga, suo ammiratore. Poi è al campo di Giovanni de' Medici, detto Giovanni delle Bande Nere, uno dei più celebri condottieri del suo tempo, che segue nelle sue campagne militari. Fra i due si instaura un cameratismo che ne fa i compagni di avventure guerresche e amorose. A Reggio Giovanni si innamora di "madonna Paula", moglie del conte Gasparo Sessi, signore di Rolo, e compie per amore prodezze stravaganti. Nel 1524 l'Aretino ritorna più di una volta a Reggio da solo e scrive all'amico le quattro lettere che qui sono raccolte. La situazione erotica sembra invertita: ora è "madonna Paula" che si strugge d'amore per il condottiero lontano, che da parte sua ostenta indifferenza. L'Aretino, a sua volta, si innamora di Laura, cuoca della contessa, ed è lui per primo a riderne e a scherzarci su. Non è da escludere che si tratti di un semplice 'gioco di società'.



Lettera di Pietro Aretino a Giovanni de' Medici da Reggio, [15 febbraio] 1524
ASF: MAP.VI.797

[c. 808r]
Io ringrazio quell'uomo da bene di messer Domenedio, non ch'Amore vi sia buon compagno, ma ch'io veggio in furore chi in furia vi ha tante volte messo; ma ben rinego san Francesco che tutto il male è sopra di me. Io ardo, io sospiro, io piango: ed è cagion di tutto questo una donna, una reina! O infelice Aretino! È possibile ch'io sia condotto a mendicare un sguardo, come se gli sguardi fossero una commenda? Io, per grazia di Dio, sono in essilio fuggito come il boia, ma se Cristo vole, se Cristo vole... Basta.
Noi tornammo da Ruolo, né so qual sia stata la cagione. Madonna Paula sempre d'allora in qua è stata in lacrimarum valle. Ella è pallida, la non si vede più né in carretta né a finestre e mi pare intendere che la vada a Bologna. Ahi crudelaccio! Ah ingrato! Come potete voi sopportare ch'una che vi ama, vi adora, vi teme, si conduca a ire per il mondo con ferma disperazione? Io per me gli ho compassione e la conforto meglio ch'io posso; e Dio il voglia che la vadi bene, e credo che la tornería a Ruolo volentieri, purché vi piacesse. Io compongo adesso cose da fare rintenerire i sassi, e questo la infelice donna mi fa fare per voi. Ma innanzi che Vostra Signoria Illustrissima gli abbia, quella leggerà un mio sonettino, il quale è pubbligo al mondo; ma nol mostrate in Mantova, perché faría perdere il gusto a quelle trasparenti e snelle mule secche tanto onorate da messer Giannozzo; e se pur lo volete mostrare, mostratelo a messer conte Ambruogio senza pennacchi.
In Reggio s'è detto che Vostra Signoria era ita a lo 'mperadore ed al sofì, di modo ch'io vo disperato insieme con più d'una persona. Ringrazio san Rocco che sète costì e credo al primo capriccio vi vengo apposta in posta.
[c. 808v]
Or torniamo al sonetto:
Io ch'un secolo e un mezzo ho buggerato
E credea buggerar favente Deo,
Perché dei nostri antichi il Coliseo
Volentier dai moderni è visitato,
Ma non so qual gaglioffo mio peccato
O quale influsso imbriaco e giudeo
Fa ch'io, che 'l fine merito d'Orfeo,
In Reggio sia di donna innamorato.
Quest'è miracol, questo è caso strano,
Non che si squarti vivo il Soderino,
Né che fusse pastor mastro Adriano!
O pazzo in forma Camerae Aretino!
Ben può dire ora ogni fedel cristiano
Ch'io non merto la grazia di Pasquino!
Ahi becco Amor facchino!
Ch'io ti metta in un destro t'apparecchia,
O fa' che torni alla mia arte vecchia.
Illustrissimo Signore, siate certissimo che tutti torniamo a la gran madre antica e se io esco con onor mio di questa pazzia buggerarò tanto, tanto e tanto che buon per me e per gli amici miei! S'io n'esco dirò tanto e tanto e tanto male de chi s'impaccia con donne che mal per loro!

[c. 809r]
Altro non ho da dirvi se non che colei che più che l'anima vi ama è vostra, né pò essere mai d'altri; e sì come de l'amor suo vi fece gran dono, così del corpo vi vuole far presente; e così si sottoscrive in questa presente scritta di propria mano. Sicché non fate più la ninfa, perch'ogni troppo è troppo. Supplico Vostra Signoria si degni dire alla Eccellentissima Illustrissima Marchesa ch'io le sono schiavo eccetera.
Io Paula afermo quanto di sopra se contiene e vi son servitrice anco che non me abiati a credere.
Di Reggio, il dì del giudizio 1524.  Di Vostra Signoria Illustrissima perpetuo servo Pietro Aretino
[c. 809v]
[sovrascritta]
Allo Invittissimo e Magnanimo Signore il Signore Giovanni de' Medici, mio Patrone, al [corpo] [s]uo e di Cristo, in Mantova



Lettera di Pietro Aretino a Giovanni de' Medici da Reggio, [1524]
ASF: MAP.CXXII.296

 [c. 299r]
Infinite adimande degli uomini e delle donne di Reggio circa il tornare di Vostra Signoria, Illustrissimo Patrone, mi sforza a scrivervi; ed il Messia non si espetta da Romanello con tanto desiderio e veramente è vedova questa terra per la lunga assenza di voi e la contessa vi brama, madonnna Girolema vi chiama e la infelice serva vostra vi piange e di così fatta maniera ch'io dubito che tosto non sentiate nuova di lei asprissima.
Signore, io vi giuro, per la sincera servitù colma di fede che tengo co le magnanime virtuti vostre, che non credo che donna sia al mondo più innamorata di lei; ed è a tal condotta che movería a pietà, non dico un uomo, ma la stessa crudeltade; e per Dio che le donne, già invidiose della buona fortuna sua che un Giovanni de' Medici invitto le aveva dato per amante, hanno più che compassione alla afflitta vita ch'ella mena, priva d'ogni conforto; e vi acquistate nome de ostinato e de quasi ingrato, massime avendo voi solo mosso ' amare quel freddo core, che mai persa dietro nissuno soldato aveva; e non di donna è più il suo angelico sembiante, ma di sepolta persona, e il suo cibo sono le lagrime, i sospiri ed il chiamare indarno il nome vostro; e s'ella fusse risoluta che 'l tornar vostro fossi lungo, non darei della sua vita niente. Sappiate, unico Signore mio, che non dico bugie, che, al corpo di Cristo, non me l'arei creduto, se mille volte il dì nol vedessi. Scrivetele almeno qualche volte, e abbiate compassione al suo nuovo ed inesperto amare e venitevi a vivere seco lieto, che son certissimo ch'ella niuno pericolo, niuno disagio e niuna cosa la trarría più del non contentarvi; e così, favole del vulgo, aranno insieme con le sue e vostre pene dolce fine; e son anco certo che 'l voler gettar via il tempo che in amarla speso avete vi dorrà in stranio modo; e più vi rincrescerà l'averlo senza frutto dispensato. E di nuovo vi replico che costei non solamente il corpo esporría ai vostri piaceri, ma l'anima. Sicché fate offizio di costante amante e di savio, concludendo le passioni sofferte con gratissimi affetti.
Parvi ch'io consigli bene? Al cul de Dio, ch'io sono in modo acconcio che il trarre i sassi è la minore, né fu mai omo che stessi peggio di me. Ma se io n'esco, s'io scappo farò dare uno trentone a quello sfasciato di Cupido. Non altro. Alla buona grazia di Vostra Signoria Illustrissima bascio vostre mane. De Reggio becco.
[Di Vostra Signoria Illustrissima]
[...]
[cc. 299v - 299-bisr: bianche]
[c. 299-bisv]
[sovrascritta]
Al Magnanimo ed Invitto Signore il Signore Giovanni de' Medici, mio unico Patrone, in Mantova


Lettera di Pietro Aretino a Giovanni de' Medici da Reggio, maggio 1524
ASF: MAP.CXXII.106

[c. 106r]
Io sono a Reggio, Dio grazia; ed al corpo di Cristo che mi pare essere ne l'altro mondo e si conosce che non c'è più il signore Giovanni e se ci fossi la peste ci saría più allegrezza.
Scavalcai in casa di madonna Pavola per riverenza del vostro amore; e non crediate che quando giunsi trovassi quel volto di già, ma una malinconichissima cera di lei e della madre e di tutti, e tutti ammalati: le donne sciagurate, cioè le fantesche, e le patrone indiavolate; e ci stetti un dì e poi mi fuggi' in casa al Cavalierotto, che, s'un'altro dì fossi restato fra tanta accidia, era forza a entrare in qualche umore malinconico.
La poverina Pavola è dal conte Gaspare stata impregnata e 'mpegnata. Dico che 'l furfante l'ha disfatta, come si compie de' turchi e corsieri, e poi l'ha ingravidata; e per mia fé che, si quel primo dì che di lei v'innamorasti fossi stata come ella è adesso, non si metteva tante volte i basti a' muli, non si digiunava i doi giorni, non si rompeva le colonne con le smisurate lance, non si giostrava tanto, non si sospirava die ac nocte. E insomma ella m'ha fatto paura, tanto è magra, pallida, collerica, ritrosa e malvestita. La madre non vi dico: pare una satanassessa. Iesus! lo spedale è più lieto che la casa loro; e vi conforto, passando di qua, a fare la via lungo le mura, per non vedere dove avete indarno spesa la gioventute vostra. E si non che non voglio essere tenuto mala lingua, direi ch'elle tanto si ricordino di voi quanto voi vi sète ricordato de loro.
Io mi burlo. La meschina con quel corpo grande, ch'ella sempre sospirando me dice: - Che fa il Signore ora? Chi ama il Signore ora? Volm'egli bene? La [...] è più bella de me? - Ed io a' giuramenti, alle bugie, agli scongiuri; e così la trattengo ch'ella non s'ammazzi; e con questo conte Gaspari domani o l'altro sarà qui a fare del resto ed a Lodi ha giocato l'arme ed i cavalli ed anderà [c. 106v] sul carro come Sciarra Colonna, a laude e gloria di quel poltrone di Marte. Alleluia, alleluia, eccetera.
M'era scordato. Oh voi avete acquistato gran biasimo fra gli armorum ghelfi, perché sète stato causa che i Grigioni abbiano mangiato come uno carciofo romanesco Renzo da Ceri; e si stima che 'l papa non vi vorrà assolvere di sì gran peccato. Pur non dubitate, Dominus providebit. Le nuove di qua son miracolose. Madonna Cornelia ha tolto marito un milanese, il quale ha diecimila scudi d'entrata, tutte le volte che 'l Re possegga lo stato di Melano, ed è già 8 notti dormita col nuovo sposo, il quale ha sudato forte a mettergli la coda fra le gambe eccetera. Madonna Camilla è gravida. Al corpo di Cristo ch'ella lo giura a ognuno e si stima ch'ella farà qualche bucifalas; ed io gli ho tocco il ventre, né messer Francesco entri in gelosia, che l'ho fatto senza lussuria; ed ancora la buona donna mette i denti, così afferma ella, ed è molto strania la mia putta Camilla.
Quanto di buono ho trovato: la contessa dabbene e madonna Giroloma divina, che sempre pregono Dio per voi e vi si recomandeno. Così il Cavalierotto vostro per loro col core e co l'anima; così messer Aurelio, predicatore della gloria vostra, e Franceschino, innamorato più che mai della fama che di voi rimbomba per l'universa terra ed infernale. E tutta questa città vi adora.
Non altro. S'io avessi creduto fare piacere a madonna Pavola, adesso che ho occasione di scrivervi, gli aría dimandato s'ella da voi voleva niente; ma mi pare che sia stato più suo piacere a non fargnene intendere e credo che questa lor desperazione venga perché le cose di Mantova vanno di mala sorte.
[c. 106-bisr]
Messer Giannozzo è stato qui; Bernardo non l'ho visto e predica la bontà del papa, il quale - s'egli dice il vero - gli ha dato un 50 scudi ed un zaffiraccio da cardinale e doimila agnusdei; e dice che Clemente è santo e che gli ha perdonato tutti i suoi peccati ed ha menato un bel turco seco.
Al Contazzo mille volte, al Buschetto ottocento, a messer Bartolommeo doimila me recomando, ed al mio messer Francesco.
De Reggio, di maggio, un dì che non me ne ricordo, 1524.
De Vostra Signoria Invittissima oblegato servitore l'Aretino

[c. 106-bisv]
[sovrascritta]
Al Magnanimo ed Invittissimo Signore Giovanni de' Medici ecc. ubi sit

 


Lettera di Pietro Aretino a Giovanni de' Medici da Reggio, [1524]
ASF: MAP.CXXI.415

[recto]
Illustrissimo Signore, per comandamento di Vostra Signoria Lotto mandò a Mantova per i denari, i quali ha riceuti ed a quella mandati gli aría s'egli persona avessi atta a portargli trovata. Io, per far bene, non ho voluto che gli mandi non sapendo per chi; poi non so come per la via si vadi. Vostra Illustrissima Signoria si degni comandare quello che d'essi si faccia.
Di novo la signora Paula a Vostra Signoria si recommanda ed a 22 ore, carca di sospiri, è ita a letto ed ha tenuta il Moretto sino a 3 ore di notte a ragionare. O pensate quanto gli saría caro l'esser con voi. La vostra speranza e dea non ha voluto che Bartolommeo si parta; anzi in casa ella e la madre l'ha voluto ritenere, con dir che pò la Vostra Signoria disponere in maggior cosa e cazzovinculo, salvando l'onore di messer Gian Pietro.
sempre servo Pietro Aretino

[verso]
[sovrascritta]
A l'unico Signore Johannes de' Medici, immortalissimo Capitano e mio Patrone, in la via

MdA 03


Il Mestiere Delle Armi (2001)




Regia  Ermanno Olmi

Sceneggiatura  Ermanno Olmi

Costumi  Francesca sartori Cox
Effetti  Fabio traversari Ayers
Fotografia  Fabio olmi Kohout
Montaggio  Paolo cottignola Rolla
Musiche  Fabio Vacchi
Scenografia  Luigi marchione Shore

Cast:
Giovanni De Medici  Hristo Jivkov
Maria De Medici  Dessy Tenekedjieva
Nobildonna Di Mantova  Sandra Ceccarelli



Federico Gonzaga  Sergio Grammatico
Lucantonio Cuppano  Dimitar Ratchkov
Pietro Aretino  Sasa Vulicevic
Loyso Gonzaga  Aldo Toscano
Francesco Maria Della Rovere  Paolo Magagna
Alfonso D'este  Giancarlo Belelli
Zorzo Frundsberg  Nikolaus Moras
Francois De La Noue  Maurizio Zacchigna
Blaise De Monluc        Paolo Roversi
Ricco Mercante  Claudio Tombini
Paolo Giovio  Franco Palmieri
Matteo Cusastro  Fabio Giubbani
Palafreniere Joanni  Michele Zattara
Frate Domenicano  Vittorio Corcelli
Cortigiana Federico  Francesca Lonardelli





Trama


Nelle campagne intorno a Mantova un gentiluomo, inviato dal generale Della Rovere duca d'Urbino, porta la notizia al marchese Gonzaga: "Messer Giovanni de' Medici è stato colpito da una botta di falconetto in una gamba". Vengono approntate cure immediate, ma ben presto risulta evidente che non è possibile fermare la lenta agonia di Giovanni: quattro giorni, e poi la morte quando è "l'ultimo de novembre 1526". Giovanni ha 28 anni. Mentre si preparano i funerali, a ritroso vengono ripercorsi gli avvenimenti più recenti. Ecco dunque Giovanni nel suo ruolo di capitano dell'armata pontificia intenta alla campagna contro i Lanzichenecchi di Carlo V. L'obiettivo dell'armata è di impedire al nemico di passare il Po, in caso contrario, dopo quell'ostacolo, la strada per Roma sarebbe spianata. Il marchese Gonzaga, duca di Mantova, si è impegnato con Papa Clemente VII e la Serenissima di Venezia a collaborare per contrastare l'avanzata degli Alemanni. Ma, per propria convenienza, appena può offre riparo al Generale Frundsberg e ai suoi uomini. Anche Alfonso d'Este, duca di Ferrara, all'ultimo momento cede alle convenienti offerte di Carlo V e in più, per mostrargli gratitudine, fornisce in segreto alle truppe tedesche quattro esemplari di uno strumento nuovissimo: il falconetto affustato su ruote, ossia una 'bombarda con palla da due libbre'. Nella notte del 23 novembre Giovanni apprende che la guarnigione tedesca ha trovato riparo presso il Serraglio di Mantova. Il giorno dopo l'imbarcazione con i falconetti attracca sulla riva mantovana. I fanti tedeschi si dispongono in posizione. Comincia a nevicare e tutti pensano ad una sospensione dei combattimenti. Giovanni però vuole vedere in faccia il generale nemico, e ordina di prepararsi. Nelle ombre della notte riconosce Frundsberg, anziano e malato. I due si salutano, poi Giovanni dà il segnale d'attacco. Quasi subito le bocche da fuoco cominciano a sparare. Resosi conto del tradimento, Giovanni capisce che la battaglia è impari, e quando viene colpito alla gamba deve ritirarsi. Ed ecco di nuovo il letto, l'agonia, la morte. Intanto i Lanzichenecchi attraversano l'Italia e arrivano a Roma. Nel 1572 la città del Papa viene completamente devastata.




Note


- IN CONCORSO A CANNES 2001.

- GLOBO D'ORO 2001 DELLA STAMPA ESTERA IN ITALIA COME MIGLIOR FILM.

- 9 DAVID DI DONATELLO 2002 PER: MIGLIOR FILM, REGIA, SCENEGGIATURA, PRODUZIONE,  FOTOGRAFIA, MUSICA, MONTAGGIO, SCENOGRAFIA E COSTUMI.



La Critica - Rassegna Stampa

Dalle note di regia: "La morte di un giovane è sempre un'offesa alla vita; una bestemmia contro il destino e la stupidità degli uomini. (...) Il "progresso" della scienza e della tecnica non garantisce all'uomo una rispettiva crescita morale e civile, un nuovo, adeguato sentimento di umanità."
"Invettiva arcana, austera, quasi sommessa, sulla distruzione del mondo nei giorni che inaugurarono la palla di piombo (...) Un prodigioso impegno di fusione dei dipinti e della lingua italiana rinascimentali nell'immaginazione documentata di Olmi, che non concede al quadro e alla parola alcuna contaminazione (ci vuole qualche minuto prima di 'entrare' nel film) (...). Storia e metafisica per condannare 'la via più breve alla crudele morte'. Il mestiere del cinema tra Kurosawa e Tarkovski". (Silvio Danese, 'Il giorno', 11 maggio 2001).
"Il film, implacabilmente refrattario alle risorse post-moderne degli effetti speciali, è realistico, a partire dalle armature fatte rifare su disegni dell'epoca; ma soprattutto nella straordinaria materialità con cui riesce a rappresentare gli oggetti: il cannoncino, il crocefisso che i soldati infreddoliti vogliono bruciare suscitando l'ira di Giovanni. 'Il mestiere delle armi' contiene anche le prime scene di sesso del cinema olmiano, però sono scene che, più luttuose delle scene di morte, lasciano un gusto di cenere". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 16 maggio 2001)
"Il film di Olmi è la storia di un eroe, di un eroe nel senso pieno della parola. Il rigore storico - documentario del regista è tale che nessuna parola, nessuna scena è stata inventata. La pellicola diventa un grande affresco della condizione umana, una riflessione profonda e sentita sui valori autenticamente umani. La coerenza, la lealtà, il rispetto". (L'Eco di Bergamo', 11 maggio 2001)
"Il soggetto de film nobile, avventuroso, rigoroso, è in realtà la morte: la presenza, la sofferenza, la cultura della morte". (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 11 maggio 2001)
"'Il Mestiere delle armi' è anche un magnifico ritratto, ottenuto sbalzando dall'ombra la fosca figura di Joanni, la sapiente radiografia di un'anima chiaroscurata a forza di fatti, non di parole; un affresco dipinto con poche pennellate vigorose in cui però c'è di tutto (...) Un grande personaggio per un grande film corale che rifiuta le psicologie, comprime le battaglie in pochi scorci fulminanti, istoria il racconto di ellissi e flashback, corteggia l'oscurità grazie alla bellissima fotografia di Fabio Olmi, insomma sfida tutte le convenzioni del cinema in costume (e non solo). Non sarà facile decifrarlo, specie per gli stranieri". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 11 maggio 2001)
"'Il mestiere delle armi' lascia un segno speciale e ci ricorda che c'è ancora il cinema oltre alla tv, oltre la sceneggiatura ben congegnata, oltre il blockbuster. Un cinema difficile che non concede, ma nemmeno nulla sottrae, allo spettatore, fusione calda di anima e immagine. (...) La fotografia dipinge quadri rinascimentali. La luce, i fumi, la nebbia, la neve e il freddo iniettano negli occhi la violenza di tempi bui e iniqui, mentre la bella musica di Fabio Vacchi sospinge le immagini verso la sacralità. La violenza del conflitto è fredda come quel rilucere di armature nel grigio dell'inverno". (Piera Detassis, 'Panorama', 24 maggio 2001)
"Un film di Olmi non si limita mai a raccontare una storia e in questo caso 'Il mestiere delle armi' non è solo uno dei rari kolossal italiani, un nostro 'Gladiatore' altrettanto spettacolare ma certamente più rispettoso della storia e più profondo; è infatti permeato di quel senso religioso, alto e drammatico, che non ha niente a che fare con la piccola superstizione religiosa che oggi invade il video coi suoi santi, i maghi, i suoi miracoli, le sue superstizioni". (Natalia Aspesi, 'D - Donne', 22 maggio 2001)
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