martedì 11 maggio 2010

MdA 05


Il Mestiere Delle Armi (2001)

 

 

Pietro Aretino: il pornografo flagellatore di Principi e Pontefici

                                                                                                                                             (di Fabrizio Legger)

 












Pietro Aretino (Tiziano)

   Nonostante il passare dei secoli e i cambiamenti di gusto, stile e mode letterarie, l’interesse per Pietro Aretino, il più spregiudicato e il più scandalistico scrittore italiano del primo Cinquecento, resta invariato, il che testimonia, a oltre cinque secoli di distanza dalla sua scomparsa, l’eterna validità di questo originale scrittore.
   Pietro Del Tura, più comunemente noto come Pietro Aretino, perché così fu solito firmarsi, nacque nel 1492 ad Arezzo, figlio di un soldato e di una popolana di non umile famiglia. Il padre abbandonò la moglie e i figli quando Pietro era ancora bambino, e la madre divenne amante di un gentiluomo aretino, un certo Bacci, che si prese a cuore il di lei vivace figliuolo, lo fece studiare e vista la sua spiccata inclinazione per l’arte e per la poesia, lo inviò a Perugia, nella bottega di un pittore, affinché apprendesse i rudimenti di tale arte. Ma a Perugia, Pietro scoprì la sua vocazione poetica. Frequentò il giovane Agnolo Firenzuola e scrisse sonetti, capitoli e canzoni di intonazione petrarchesca, che pubblicò, nel 1512, in un volume intitolato Opera Nova, stampato a Venezia dall’editore Zoppino.
   Poi, dopo un breve soggiorno a Siena, ricco di studi pittorici e letterari, ma anche di bagordi e di avventure erotiche con ricche adultere e volgari donne di malaffare, ben deciso a tentare la carriera letteraria, nel 1517 si trasferì a Roma.
   L’Aretino era un uomo smodato e libidinoso, amante della buona tavola e delle belle donne: insomma, un ghiottone, un crapulone, un frequentatore di taverne e lupanari. Aveva la battuta sempre pronta, la risata gagliarda, e il suo tono era in perenne equilibrio tra il canzonatorio e l’adulatorio. Amava far bisboccia sino a tarda notte, spesso si ubriacava, e non passava sera senza che andasse, da solo o in compagnia di allegri puttanieri, in qualche bordello a “cavalcar bagasce”, come confessò egli stesso con grande schiettezza e con compiaciuto gusto dell’osceno.
   Roma, nel primo Cinquecento, era una città viziosa e godereccia, dove gli artisti potevano condurre esistenze scapestrate e irregolari, senza timore di incorrere in austere punizioni (come poi invece avvenne verso la fine del secolo, con l’imporsi soffocante della Controriforma). Infatti, anche i papi, i cardinali e gli altri prelati, a quell’epoca, non disdegnavano di sollazzarsi carnalmente con meretrici e prostituti, tanto che, nelle pasquinate (le celebri satire poetiche dell’epoca) il Vaticano era definito come uno “squallido bordello” e un “covo di baldracche, puttanieri e sodomiti vestiti di porpora”.
   In quell’ambiente a lui così congeniale, l’Aretino si mise subito in mostra e si fece notare immediatamente: cercò di ingraziarsi potenti cardinali e prestigiosi uomini d’affari, scrivendo per loro poesie encomiastiche in cui ne tesseva pomposamente gli elogi, ma, al tempo stesso, si dette da fare per conoscere nel più breve tempo possibile, tutte le più avvenenti meretrici e tutte le più rinomate taverne dell’Urbe, in modo da tenere saldamente i piedi  in entrambi gli ambienti: quelli “alti” del potere e della ricchezza, e quelli “bassi” dei piaceri volgari e dei bagordi da strapazzo.
   E da tutti e due questi ambienti trasse ispirazione feconda per le proprie dissacranti e pungenti opere letterarie (come si può ampiamente riscontrare dalle Pasquinate, dai Sonetti Lussuriosi, dalle Commedie, dalle Sei Giornate).
   Il suo carattere spiritoso, ilare, sboccato, sarcastico, libidinoso, ridanciano, lo fece presto benvolere dal ricco finanziere Agostino Chigi, il quale gli fece da mecenate e lo assunse al suo servizio.
   Così, sotto la protezione di un tale mecenate, Pietro Aretino iniziò a frequentare gli ambienti nobiliari e quelli ecclesiastici, divenendo di casa sia alla corte pontificia, sia nelle nobili dimore dei cardinali altolocati e degli aristocratici con cui il Chigi intratteneva ottimi rapporti di affari. E in tutti questi ambienti, lo scurrile poeta toscano riuscì a trovare amicizie, protezioni e ricchi compagni di bagordi, di orge e di lascivi piaceri carnali.
   Ma la sua fama si legò ben presto anche al timore che suscitava la sua maldicenza, la sua lingua pungente e la sua capacità innata di ironizzare sarcasticamente (ora in versi, ora in prosa) su qualunque fatto di cronaca mondana, pettegolezzo o diceria, tanto che, molti nobili, preferivano pagarlo lautamente affinché “tacesse” piuttosto che non pagarlo e rischiare così che scrivesse cose ad essi poco gradite.
   Il periodo romano fu letterariamente assai fecondo per il poeta toscano, anche perché, frequentando le case dei ricchi aristocratici e dei nobili prelati, ebbe modo di usufruire delle loro ben fornite biblioteche, incrementando la sua cultura e trasformandosi in un letterato assai apprezzato per il suo sapere in fatto di poesia cavalleresca, teatro comico e tragico e letteratura agiografica.
   Ma il meglio della sua ispirazione poetica, l’Aretino la ottenne dalla lunga frequentazione dei trivi e dei postriboli, dove conobbe a fondo, in tutte le sue infinite e complesse sfaccettature, l’umanità sanguigna e sensuale delle meretrici, degli ubriaconi, dei puttanieri e degli avventurieri di ogni risma che immortalò poi in poesie divenute celebri, come i famigerati Sonetti Lussuriosi, in cui si possono leggere versi sconci come questi:

Perch’io prov’or un sì solenne cazzo,
che mi rovescia l’orlo della potta,
io vorrei esser tutta quanta potta,
ma vorrei che tu fossi tutto cazzo.
Perché s’io fossi potta e tu cazzo,
isfameria per un tratto la potta,
e tu averesti anche dalla potta
tutto il piacer che può aver un cazzo.
Ma non potendo esser tutta potta,
né tu diventar tutto di cazzo,
piglia il buon voler da questa potta.

   E la sua frequentazione dei bordelli e dei lupanari fu così intensa e così profonda, tanto che divenne un vero e riconosciuto esperto nell’arte del meretricio (esperienza che trasferirà poi nei suoi celebri dialoghi puttaneschi, le già citate Sei Giornate).
   A Roma, Aretino scrisse un’opera in versi, purtroppo andata perduta, di cui si conosce solo il titolo: Il Regno de la Morte, oltre, ovviamente, alle centinaia di pasquinate anonime per cui divenne celebre.
   Queste poesie satiriche estremamente feroci, piene di ingiurie e di termini triviali, venivano appese, anonime, alla statua mutilata di Pasquino, un residuo scultoreo di epoca ellenistica oggi collocato di fianco a Piazza Navona, al cui torso i poeti satirici appendevano i loro componimenti in versi, decisamente critici e denigratori nei confronti dei Papi e dei principali notabili della Corte pontificia.
   L’attività di Aretino come pasquinaro iniziò probabilmente nel 1521, alla morte di Leone X, pontefice che aveva protetto il poeta, ospitandolo a corte. Aretino, alla corte del Papa, si era fatto molti nemici, e con la morte di Leone, temeva fosse eletto papa qualche cardinale a lui avverso, che non gli avrebbe riconfermato gli stessi privilegi di cui godeva sotto il papa mediceo.
   Così, iniziò a scrivere violente pasquinate, piene di sarcasmo e insulti, contro i porporati che, all’interno del Conclave, gli erano più ostili. L’elezione di Papa Adriano VI, il 9 gennaio 1522, un cardinale fiammingo che egli detestava, lo indusse a continuare i suoi attacchi poetici contro la Curia e il nuovo pontefice, facendo così aumentare il numero dei suoi avversari, ma quando intuì che per lui le cose si mettevano male, preferì non rischiare e abbandonare Roma.
   Dal 1522 al 1525 l’esistenza di Pietro Aretino fu più che mai turbolenta e pericolosa, in quanto la sua attività di poeta satirico, pur rendendolo famoso tra il popolo romano, gli alienò molte simpatie alla corte pontificia.
   Lasciata l’Urbe nel luglio del 1522, temendo che il nuovo Papa (che non lo vedeva affatto di buon occhio) potesse farlo arrestare per le sue opere triviali e irriverenti, si recò dapprima a Bologna (dove si fece mantenere per qualche tempo da una ricca donna avida di sesso e affascinata dalle sue poesie lussuriose), poi ad Arezzo (dove cercò di recuperare un po’ di denaro dai suoi parenti) e quindi a Firenze (dove fu ospite dei Medici, illustre famiglia di cui era grande amico).
L’anno successivo andò a Mantova, dove fu ospite dei Gonzaga, poi, nell’estate, si recò a Reggio Emilia, presso Giovanni dalle Bande Nere, grande capitano di ventura e suo intimo amico.
   Presso Giovanni, che apparteneva alla grande famiglia fiorentina dei Medici, l’Aretino restò parecchi mesi, consigliandolo su questioni militari e politiche e accompagnandolo nelle sue bisbocce di taverna e di postribolo.
   Nel novembre del 1523, in seguito all’improvvisa morte di Papa Adriano, tornò a Roma, sperando nell’elezione di un pontefice amico. Fu eletto Giulio de’ Medici, con il nome di Clemente VII, e l’Aretino esultò non poco per questa nomina, visti i suoi ottimi rapporti con la illustre famiglia toscana.
   Ma neppure l’ascesa al soglio pontificio di Clemente VII fu sufficiente a migliorare la sua posizione. Nella corte papale c’erano troppe persone che gli erano ostili: alti prelati che si erano sentiti offesi dalle sue pasquinate, capi di ordini religiosi che erano stati denigrati dai versi e dalle prose dello scrittore, dotti teologi che mal sopportavano la sua libertà di pensiero e l’irriverenza con cui trattava le turbolente vicende del Papato.
   Ce n’era quanto bastava per rendergli la vita veramente difficile: i tempi erano cambiati, i suoi nemici si erano coalizzati, e neppure la presenza di un Papa Medici poteva bastare per rendere sicura l’esistenza dell’Aretino.
   Nel frattempo il poeta, pur viaggiando in continuazione, aveva scritto diverse opere importanti, come i Sonetti Lussuriosi e i Dubbi Amorosi (poesie pornografiche in cui cardinali, monaci e monache vengono descritti come puttanieri, sodomiti e meretrici, intenti a praticare tutte le possibili posizioni degli accoppiamenti sessuali, sbizzarrendosi in amori postribolari, lesbici e sodomitici), la celebre commedia La Cortigiana e tutte le sue più mordaci e velenose Pasquinate.
   I rapporti con i cortigiani papali, però, continuavano a rimanere tesi, in particolare con Gian Matteo Giberti, datario pontificio, con il quale ebbe dapprima aspre tenzoni verbali e piene di ingiurie, poi, addirittura, giungenti allo scontro fisico, con tanto di schiaffi, pugni, calci e sputi in faccia.
   Motivo del contendere? Da un lato, l’avversione profonda (e reciproca) che l’Aretino e il Giberti provavano l’uno nei confronti dell’altro, dall’altro, l’arresto del giovane incisore Marcantonio Raimondi (su ordine dello stesso Giberti) per riprodotto sedici disegni erotici del pittore Giulio Romano, ispirati ai Sonetti Lussuriosi dell’Aretino.
Quest’ultimo prese l’arresto del Raimondi come un vero e proprio affronto alla sua persona, e tanto fece, tantò urlò e tanto batté i pugni, finché il Papa si decise ad ordinare la scarcerazione dell’incisore.
Dopo che il suo amico venne liberato, l’Aretino pubblicò i sonetti, nei cui protagonisti maschili (impegnati in orge di sesso sfrenato con monache, puttane, prelati sodomiti e fraticelli novizi) molti lettori dell’epoca riconobbero il Giberti.
   Scoppiò un grande scandalo, il Papa prese le difese del datario (che si ritenne non solo offeso, ma anche esposto a pubblico ludibrio) e il poeta, per non finire in galera, dovette nuovamente lasciare Roma, rifugiandosi prima ad Arezzo presso i suoi parenti, poi a Fano (dove era accampato Giovanni dalle Bande Nere): e lì, nella piccola città marchigiana, ebbe modo di incontrare e conoscere il re di Francia Francesco I, il quale trovò l’Aretino assai simpatico e lo prese a ben volere, promettendogli appoggio e protezione.
   Grazie all’intervento di alcuni cardinali che gli erano amici, l’Aretino riuscì ad ottenere una perorazione della sua causa presso il Papa. Questi lo perdonò e lo invitò a riappacificarsi con il Giberti.
   Così, nel novembre del 1524, l’Aretino tornò a Roma. Quella con il Giberti fu una riappacificazione solo formale, in quanto i due si detestavano a vicenda, ma dovettero far finta di perdonarsi reciprocamente perché così voleva il pontefice. Poi, il Papa insignì l’Aretino con la croce di Cavaliere di Rodi, ma la corte seguitò a rimanergli ostile.
   Giberti aveva molti amici influenti, assai corrotti e pronti a sostenerlo, perciò l’Aretino si trovò sempre più frequentemente attaccato dai partigiani del datario, i quali gli giurarono che gliela avrebbero fatta pagare.
   Il poeta, dal canto suo, non rimase certo in silenzio. Sentendo tanta ostilità e tanta avversione intorno a sé, riprese a scrivere feroci pasquinate, attaccando gli alti prelati amici del Giberti e satireggiando la corrotta corte pontificia.
   La sua musa sarcastica andò sul pesante, tanto che furono in molti coloro che si sentirono profondamente offesi. Infine, nel luglio del 1525, in seguito a tali feroci pasquinate nelle quali fu ampiamente riconosciuto lo stile aretinesco, il poeta (che era da poco tornato da un viaggio a Mantova) fu aggredito da un sicario prezzolato, un certo Achille Della Volta, inviatogli contro dal solito rancoroso Giberti: lo scrittore reagì all’aggressione e si difese piuttosto bene, sebbene rimanesse ferito al costato e sfigurato in viso, tanto che riuscì a mettere in fuga il pur violento e sanguigno assalitore.
   Invano il poeta si appellò al nuovo Papa per ottenere giustizia: non ottenne risposta, ragion per cui, qualche giorno più tardi, dopo aver profferito roventi ingiurie di ogni genere contro l’odiatissimo Giberti, lasciò per sempre Roma, profetizzando per la città un lugubre futuro di sventura e di morte (e in questo fu davvero profeta, in quanto, nel 1527, i lanzichenecchi germanici calarono sull’Urbe e la saccheggiarono orribilmente) e dirigendosi nuovamente alla volta di Mantova, dove si mise al seguito del suo amico Giovanni dalle Bande Nere, che combatteva per gli Imperiali al servizio della signoria mantovana. Poi, nel 1526, alla morte di Giovanni, perito in seguito ad una ferita in combattimento, si mise al servizio dei Gonzaga, per i quali iniziò a scrivere il poema Marfisa. A Mantova compose anche la celebre e divertente commedia dal titolo Il Marescalco.
   Forse, nella città dei Gonzaga, Aretino avrebbe potuto trovare una buona sistemazione, ma la sua irrefrenabile lussuria lo portò prima a sedurre e ad abusare di alcune damigelle di corte, poi, ad adescare dei giovinetti, con i quali si abbandonò ad atti inverecondi di libidine sodomitica. A questo punto, il Marchese Federigo gli fece intendere che alla corte di Mantova non c’era posto per letterati-avventurieri come lui, e così Aretino fu nuovamente costretto a fare fagotto.
   Nell’aprile del 1527 raggiunse Venezia, dove era stato preceduto dalla fama delle sue opere letterarie e delle sue pasquinate. Nella Repubblica Serenissima, trovò molti protettori, oltre che il porto franco della nascente industria editoriale, e ciò lo indusse a fermarsi nella città lagunare, anche perché vista la fama di poeta che ormai lo circondava, aveva la ferma intenzione di fare stampare dai celebri editori veneziani tutte le sue numerose opere in verso e in prosa.
   A Venezia, il poeta toscano strinse rapporti di amicizia con il Doge Andrea Gritti e con il pittore Tiziano Vecellio, e si trovò a proprio agio in quell’ambiente letterario così vivace e frizzante, caratterizzato da una fervida attività tipografica.
   Il poeta si invaghì a tal punto di Venezia e delle sue bellezze, tanto che non la lasciò più. Acquistò una casa sul Canal Grande e si dedicò alacremente all’attività letteraria, scrivendo poemi come L’Orlandino, dialoghi puttaneschi come quelli delle Sei Giornate, e quelli accademici de Le carte parlanti e del celebre Dialogo delle Corti, la tragedia Orazia, commedie quali La Talanta, Il Filosofo, L’Ipocrito, centinaia di Lettere, nonché molte opere di carattere religioso quali Il Genesi, La Passione di Gesù, I Tre Libri dell’Umanità di Cristo, La Vita di Maria Vergine.
   Come ho accennato, Venezia, a quell’epoca, era la capitale italiana della stamperia: vi si trovavano i migliori tipografi e i migliori editori, come il celebre Aldo Manuzio, e fu proprio nella città lagunare che l’Aretino fece stampare la maggior parte delle sue opere, seguendo tutte le procedure di stampa con meticolosità e pungolo maniacale, in particolare l’epistolario, le opere religiose, le commedie e i  dialoghi, con le quali costruì la sua notevole fortuna letteraria.
   Ma anche nella quiete godereccia di Venezia, l’Aretino non smise di scrivere sonetti mordaci e poesie satiriche contro i vari potenti dell’epoca, tanto che, pur di far tacere la sua penna velenosissima, capace di scaricare infamia e vituperio su chiunque prendesse di mira, re e imperatori, aristocratici e alti prelati si “comprarono” la benevolenza di Pietro Aretino inviandogli doni preziosi, regali sontuosi e ingenti somme di denaro (l’imperatore Carlo V gli passò pure una sorta di pensione mensile, quale ricompensa per i suoi alti meriti letterari e per la sua politica filo-imperiale). Queste, sommate ai proventi che gli giungevano dalle vendite dei suoi libri (in particolare le opere religiose) consentirono al poeta di condurre un’esistenza agiata e spensierata.
   Uomo lussurioso, prodigo, amante dei piaceri carnali, dei bei vestiti, degli agi e della buona tavola, della crapula e delle orge, Pietro Aretino trasformò la sua casa veneziana in una sorta di sfarzoso postribolo e di corte delle oscenità, dove si alternavano in soggiorni più o meno lunghi, avvincenti meretrici, cortigiane fallite, saltimbanchi e giocolieri, ubriaconi e lestofanti, attori affamati, poeti in cerca di fortuna, mercanti, puttanieri, uomini d’arme e avventurieri di ogni risma.
   E in mezzo a tutta questa allegra compagnia di baccanti, di puttane da trivio, di biscazzieri e di artisti bizzarri (tra cui il celebre poeta campano Niccolò Franco), di prostitute d’alto rango e di intrallazzatori, Aretino visse gagliardamente, immerso nei piaceri più sfrenati (sesso a tutto spiano, colossali abbuffate di cibo e feste pressoché continue) e in una attività letteraria che non conobbe soste, sino al 1556, anno in cui morì.
   Ma anche la sua morte fu una sorta di beffa del destino: la leggenda aretinesca racconta, infatti, che Aretino morì per il troppo ridere, dopo aver visto una scimmia che, portata nel suo palazzo da un mercante giunto dall’Oriente, si era infilata nei suoi stivali e camminava goffamente incespicando, schiamazzando e cadendo in continuazione. A furia del troppo ridere, mentre si trovava circondato dalle sue prostitute e dai suoi buffoni, gli si strappò una vena nel petto e il gagliardo poeta delle pasquinate se ne andò all’altro mondo sghignazzando e spasimando, a causa di una inarrestabile emorragia interna. Questo l’aneddoto: sembra invece che il poeta pasquinaro sia morto a causa di un colpo apoplettico.
   Pietro Aretino, con il suo gusto della maldicenza e dello scandalo, riuscì a intimorire i potenti dell’epoca e a farsi mantenere da essi, ma, al tempo stesso, a livello intellettuale, condusse un’aspra battaglia contro il classicismo pedantesco, il petrarchismo, l’aristotelismo, il bembismo, rivelandosi uno scrittore acuto, mordace, brillante ed originale, che fece delle tematiche sessuali volte in satira uno dei suoi argomenti prediletti. Oggi, delle sue opere, sono facilmente leggibili le Lettere (edite da Rizzoli) e le Commedie (edite da Mursia), nonché i dialoghi delle Sei Giornate e i Sonetti Lussuriosi, pubblicati in numerose edizioni, anche tascabili.
   Dunque, ad oltre cinquecento  anni dalla nascita, Pietro Aretino fa ancora parlare di sé, continua a suscitare interesse e curiosità, le sue opere migliori continuano a vendersi, e anche il cinema si è più volte interessato della sua figura. Prodigi, questi, di uno scrittore veramente immortale!

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